Convegno: Fairplay nello sport, un valore ancora attuale?

“Fair play nello sport, un valore ancora attuale?”. Doveva essere questo il tema del convegno organizzato dal GS Excelsior in collaborazione con il quotidiano Alto Adige per festeggiare la conquista della Coppa Disciplina numero 15 in 19 campionati giocati. L’interruzione del campionato provinciale di calcio di Terza Categoria e il divieto di organizzare eventi in presenza di pubblico hanno impedito l’organizzazione fisica del convegno, ma non hanno fermato la volontà di confrontarsi su un tema troppo spesso messo da parte nello sport. All’invito dell’Excelsior di ragionare sul fair play hanno aderito sei relatori che hanno accettato di mettere per iscritto i loro pensieri su questo argomento.

Pubblichiamo una breve presentazione fotografica dei relatori e a seguire i loro interventi

Don Luigi Ciotti
fondatore del Gruppo Abele (Torino) e dell’Associazione LIBERA

Daniela Cavelli
Insegnante di Educazione Fisica, Psicologa dello Sport, Giudice I.S.U. internazionale di pattinaggio artistico su ghiaccio.

Sergio Manghi
Docente di Sociologia delle emozioni collettive
Università di Parma
Autore del monologo teatrale “Zidane, anatomia di una testata mondiale”

Stefano Bizzotto
Giornalista Raisport

Massimo Bernardoni
Presidente Comitato italiano paralimpico sezione Trento e Bolzano

Giorgio Merola
Psicologo dello sport, responsabile del monitoraggio degli atleti-allievi del progetto Olympia

Fair Play,
Etica ed estetica dello sport

Don Luigi Ciotti
“Fair”, in inglese, vuol dire sia bello che giusto. Etica e estetica: è l’essenza dello sport. Perché se è vero che lo sport è spesso avvincente, emozionante, è anche vero che la pratica sportiva ha innanzitutto, come avevano capito per primi gli antichi Greci, un’anima pedagogica, educativa. Lo sport dovrebbe insegnare prima di tutto la socialità e la corresponsabilità, il realizzare insieme sogni e obiettivi comuni.
Obbiettivi e sogni che comportano però impegno, cioè allenamento, sacrificio, dedizione e coraggio. Impegno a superare le proprie paure, a tirare fuori il meglio di sé sempre nel pieno rispetto dell’avversario. Perché l’altro non è un “nemico” ma un “compagno d’avventura” che ci permette di andare oltre i nostri limiti.
Ecco allora che uno sport così vissuto e inteso può essere uno strumento attivo di progresso. Da un lato un’educazione all’impegno e alla ricerca, dall’altro una palestra per allenarci a rapporti con gli altri leali e disinteressati, al di là di quella logica individualista che vede nell’altro solo un nemico o, tutta’al più, un complice.
Nello sport atleti di tutto il mondo si sfidano, faticano insieme, corrono sulla stessa strada, giocano nello stesso campo, perseguono lo stesso obiettivo, accettando di vincere, di perdere, di infortunarsi e di ripartire. Fair play significa giocare correttamente, lealmente, gioire nella vittoria senza umiliare l’avversario, accettare la sconfitta come tappa di un cammino di crescita. Ma soprattutto significa rifiutare ogni compromesso, ogni scorciatoia (a cominciare da quella del doping.). In questo senso lo sport allena alla vita: chi impara a giocare lealmente in campo ci sono buone probabilità che fuori sarà un cittadino attivo, responsabile e onesto.
È anche una questione di sensibilità, di empatia: gli sportivi sono capaci di sentire sulla loro pelle le fatiche degli altri perché le conoscono, avendole vissute.
In un mondo dove una delle “merci” più diffuse si chiama indifferenza – come denuncia Papa Francesco – l’empatia è la base di un vero cambiamento. Empatia significa passare dal semplice accorgersi che gli altri esistono davanti e attorno a noi, al riconoscerli dentro di noi, al sentire l’altro come emozione di vita e come voce di coscienza.
Lo sport dunque come occasione di piacere e gioia, ma anche come palestra di relazioni e responsabilità. E se questo aspetto etico-sociale è tanto più evidente negli sport di squadra, non manca di esserlo anche nelle discipline individuali. Quando infatti la competizione è leale, pulita, ad “armi” pari, l’altro è percepito come un con-corrente, ossia uno con cui e non contro cui, letteralmente, si corre dietro allo stesso sogno, nella condivisione delle fatiche, degli allenamenti, in una sempre acuta coscienza dei propri limiti, passo necessario per superarli. Finita la gara infatti ci si stringe la mano o ci si abbraccia, in segno di rispetto e amicizia, nella comune consapevolezza del nostro essere segnati da limiti e fragilità. Un’ultima cosa: così concepito lo sport è antidoto formidabile alla violenza. E viene da chiedersi come possa essere pulito e formativo uno sport piegato alle logiche di un mondo come questo, implicitamente violento perché governato da un sistema politico-economico che sempre Papa Francesco ha definito con la schiettezza che lo caratterizza “ingiusto alla radice”. Mondo dove la logica della competizione non conosce etica né senso dei limiti, scrupolo o pudore, e dove ingiustizie e disuguaglianze sono figlie di una degradazione delle relazioni a “rapporti di forza”: da una parte i padroni, dall’altra gli schiavi, da una parte i potenti, dall’altra i poveri e gli esclusi

 

Le parole “sconosciute” dello sport

Daniela Cavelli
Quando Il Gs Excelsior mi ha contattata per collaborare al convegno virtuale sul tema “Fair Play nello sport, un valore ancora attuale?” ho accettato volentieri, con entusiasmo e con…allegria, emozione che, sempre, suscita in me la parola SPORT.
Oggi si parla tanto, ogni giorno, di sport e si usano moltissime parole, forse troppe, a tutti i livelli, (bimbi, adulti, anziani) e nei contesti più disparati (famiglia, scuola, politica, enti preposti, associazioni di volontariato, stampa, bar…) e spesso verifico, nel mio lavoro , con gli studenti a scuola, con atleti e allenatori , con genitori e dirigenti, che queste parole sono utilizzate, per lo più, senza una vera consapevolezza del significato profondo che vorrebbero trasmettere.
Ascoltiamo spesso frasi , ridotte ormai quasi a slogan, che sono entrate nel linguaggio comune fin dalla più tenera età, proprio nel momento in cui bisognerebbe prestare la massima attenzione al nostro modo, da adulti, di parlare ai bambini i quali, non comprendendo il significato delle parole, astratte, si limitano a ripeterle, ricevendo in cambio grandi lodi da parte degli adulti significativi, genitori, maestri, allenatori….
Entrando nello specifico, vorrei iniziare dalla parola SPORT. Da dove deriva e cosa vuol significare esattamente? Etimologicamente deriva, in prima battuta, dal latino “deportare” = fuori porta e dal francese antico “desport” = divertimento, poi trasformato nell’inglese “disport” = diporto, divertimento, svago, ed infine abbreviato nella parola “SPORT”, ancor oggi universalmente usata, e intesa come l’insieme di attività motorie che impegna le capacità psicofisiche dell’atleta con finalità amatoriali oppure professionistiche.
Quindi lo sport dovrebbe sempre possedere quella componente ludica che ne ha caratterizzato l’essenza, fin dalla sua nascita. L’esperienza del GIOCO deve essere sperimentata e “vissuta” a partire dall’infanzia , in modo che possa fungere da “nutrimento” anche quando il bimbo fosse diventato atleta olimpico!
Un’altra frase che si sente ovunque, detta da bimbi anche molto piccoli, è: “L’importante non è vincere ma partecipare”, traduzione tutta italiana , con significato vagamente consolatorio, ed , erroneamente, attribuita a Pierre De Coubertin, il quale, invece, l’aveva tratta dalle Metamorfosi di Ovidio , con un significato ben diverso: “ Non è tanto disdicevole l’essere sconfitto, quanto è degno l’aver combattuto”, come ci ricorda Franco Arturi , nella sua rubrica “Porto Franco” della Gazzetta dello Sport.
E se lo sport, come da più parti detto , non è un fine , ma un mezzo , uno strumento potente di crescita della personalità nelle sue dimensioni motoria, cognitiva, emotiva e sociale, appare chiaro che PARTECIPARE significa “vivere” l’esperienza sportiva, mettendo in campo non solo il movimento del corpo, ma anche la nostra capacità di pensare,(analizzare i dati, scegliere la strategia migliore, decidere) la nostra necessità di far emergere le emozioni e di saperle vivere e controllare, il nostro bisogno di vivere insieme agli altri e quindi di conoscerli, imparare a comunicare e a collaborare nel rispetto delle regole. Tutto questo vuol dire PARTECIPARE… A volte, tuttavia, penso come sia difficile per un bambino vivere lo sport in questo senso, quando è circondato da adulti che suggeriscono come muoversi, cosa fare, cosa correggere, come evitare l’errore, inammissibile, anziché lasciarlo vivere loro come una formidabile opportunità di miglioramento…
A sostegno di quanto lo sport, se ben condotto, sia strumento di formazione della personalità, mi giunge il MOTTO del C.I.O. COMITATO OLIMPICO INTERNAZIONALE di cui pochissimi conoscono il vero significato, spesso nemmeno gli atleti che hanno partecipato a più Olimpiadi!!!
Il motto è rappresentato da tre parole latine CITIUS ALTIUS FORTIUS che significano PIU’ VELOCE PIU’ ALTO PIU’ FORTE……
I ragazzi e anche molti atleti top ritengono che questi comparativi di maggioranza si riferiscano al correre più veloce, saltare più in alto, tirare o spingere o lottare più forte.
Non è così, sarebbe davvero limitativo ed annullerebbe la funzione altamente formativa dello sport, riducendolo ad una serie di allenamenti, competizioni e risultati.
De Coubertin si appropriò di questo motto che il suo amico e confidente religioso, il francese Padre Didon, aveva fatto affiggere sopra il portone del suo Collegio, al quale erano ammessi soltanto allievi che avessero sottoscritto e rispettato il motto, e lo adattò alla sua idea di sport, adottandolo come motto delle prime olimpiadi moderne che ripristinò nel 1896, sul modello di quelle dell’antica Grecia.
Ma, infine, che cosa significa, quindi , questo motto?
CITIUS più veloce si riferisce al PENSIERO (dimensione cognitiva della personalità)
ALTIUS più alto si riferisce all’ETICA e alla MORALE (principi, valori e conseguenti comportamenti. Riguardano la dimensione affettivo/emotiva e sociale della personalità)
FORTIUS più forte si riferisce al CORPO (dimensione motoria della personalità)
Se pensiamo ai nostri atleti olimpici, Pellegrini, Vezzali, Cagnotto/ Dallapè, Campriani, Zanardi, Mennea, Belluti, Fusar Poli/ Margaglio, Kostner, Brignone, Goggia, nazionali di pallavolo, pallanuoto...….ognuno pensi ai suoi preferiti…… non possiamo che confermare la loro vita all’insegna del rispetto di questo motto, che ha contribuito a formare le loro personalità , rendendoli modelli da imitare per le nuove generazioni.
Voglio concludere, ricordando che siamo noi adulti che abbiamo la responsabilità e la grande opportunità di TRASMETTERE CULTURA SPORTIVA ai nostri ragazzi, magari anche soltanto, facendo loro capire il significato delle parole che usiamo.
ANCHE QUESTO E’ FAIR PLAY…. GIOCO CORRETTO!!!!

 

Sport, violenza e civiltà
Note sul fair play al tempo del Coronavirus

Sergio Manghi
Questa crisi pandemica, come una sofisticatissima moviola globale, sta facendo scorrere sotto i nostri occhi al rallentatore ogni nostro minimo gesto abituale. Quelli di rispetto e quelli di disprezzo. Quelli di accoglienza e quelli di superiorità. E così via. Con tutte le umanissime confusioni, naturalmente, che stanno nel mezzo. E rendendo comunque ancor più necessario saper distinguere. Anche dentro le stesse parole rispetto, accoglienza, e così via.
Poiché c’è rispetto e rispetto. E in ambito sportivo: c’è fair play e fair play. Un fair play astratto e di facciata, da pubblicità progresso, che fa sentire innocenti a poco prezzo, e uno che magari non è neanche chiamato così ma vive dentro la fragile quotidianità dei faccia a faccia sportivi facendo propria in concreto la sfida di civiltà che si gioca, in pubblico, in ciascuno di essi: riconoscimento dell’altro, rispetto, accoglienza.
Non c’è mai stata prima d’ora un’occasione come questa per osservare al rallentatore come stiamo facendo società, nel bene come nel male. E per chiederci come poterlo fare almeno un po’ meno peggio: meno rapaci, diseguali, violenti, inquinanti…
In questo compito, la parte che tocca allo sport è di enorme importanza. Perché il mondo sportivo, preso nel suo insieme (atleti, pubblico, organizzazione, comunicazione), non è un mondo separato, come ancora ci ostiniamo a pensarlo – sfogo, passatempo, divertimento. Ma attraversa per intero, capillarmente, le nostre società. I generi e le generazioni. Riducendo più di ogni altra attività sociale l’influenza delle grandi disuguaglianze di reddito, di scolarità, di abilità psicofisica, di origine etnica e territoriale.
E soprattutto, per intenderci su quella che ho chiamato sfida di civiltà: nello sport, in ciascun singolo confronto sportivo, si riprova senza sosta a filtrare e sublimare, trasformandola in bellezza e in competizione solidale, l’antica propensione umana – antica ma tutt’altro che svanita – a risolvere in violenza i conflitti che muovono la dinamica di fondo di ogni società, nel bene come nel male (mai dimenticare Eraclito: «Il conflitto è padre di tutte le cose»).
Certo, anche nello sport c’è violenza, eccome. Non sta su un altro pianeta. Ma c’è molta cecità, nelle accuse allo sport di esserne causa, ben oltre le sue reali responsabilità. Peggio: c’è molta voglia di occultare, attribuendoli a una sua parte, i conflitti che pervadono da cima a fondo un tessuto sociale carico di disuguaglianze e malumori come il nostro. Conflitti che con questa crisi pandemica si acuiranno, possiamo presumere, via via che si allenterà la paura del contagio.
Solo molto di recente, nella lunga storia umana, abbiamo iniziato a tentare di accogliere la sfida di volgere le conflittualità anche violente in fonte di trasformazione sociale, secondo criteri di giustizia, rispetto e accoglienza. E di questo fragile tentativo, lo sport è una componente essenziale, anche nella crisi in corso. È la consapevolezza o meno della portata, potremmo dire estetico-politica, di tale ruolo dello sport, a fare la differenza tra un’idea astratta, come si diceva sopra, e un’idea concreta delle pratiche di fair play.

 

Perché da una tragedia può nascere un “nuovo” calcio

Stefano Bizzotto
Difficile, se non impossibile, dire a chi e a quando risalga il primo gesto di fair-play nel calcio. Un indizio ce lo fornisce “Ode per Mané”, libro del giornalista Darwin Pastorin dedicato a Garrincha, uno dei giocatori più forti e più sfortunati nella storia. Racconta Pastorin che un giorno Mané (era il suo soprannome) mise volontariamente la palla in fallo laterale per consentire a medico e massaggiatore di soccorrere un avversario rimasto a terra. Un gesto apparentemente normale che però scatenò la meraviglia dei presenti al punto da essere tramandato e finire nella biografia del grande Garrincha.
Ce ne sono stati tanti, di gesti del genere: dopo e probabilmente anche prima di quel pallone gettato in fallo laterale sessanta e più anni fa. Però sono gesti che vanno “pesati”. Me ne viene in mente un altro, molto più recente. L’anno è il Duemila, si gioca l’ultima giornata della nostra serie A. La Juventus, capolista con un punto di vantaggio sulla Lazio, è di scena a Perugia. Pioggia torrenziale. La partita viene interrotta per un’ora circa, poi l’arbitro Collina decide di riprendere e il Perugia passa in vantaggio. La Lazio intanto aveva battuto 3-0 la Reggina e aspettava notizie. Ad un certo punto, Collina assegna una rimessa laterale alla Juve. Manca poco alla fine, bisogna riprendere il gioco il più in fretta possibile. Un giocatore juventino, Gianluca Pessotto, si avvicina all’arbitro e gli dice più o meno queste parole: “Guardi che si sbaglia. Ho toccato io per ultimo il pallone, la rimessa è del Perugia”. La Juve vede svanire una delle ultime possibilità di avvicinarsi alla porta degli umbri. Collina guarda negli occhi Pessotto e gli stringe la mano.
Pochi mesi dopo, è il turno di Paolo Di Canio. Uno dal quale magari tutto ti aspetteresti ma non atteggiamenti nel segno del fair-play. Campionato inglese, la partita è Everton-West Ham. Ultimo minuto, risultato 1-1. Il portiere dell’Everton finisce a terra in un contrasto, l’arbitro non fischia. La palla è lì, vicina alla linea di porta, a disposizione del primo che la prende. Il primo è Di Canio, che indossa la maglia del West Ham. Solo che anziché segnare il più facile dei gol, l’attaccante italiano la afferra fra le mani e dice che no, non è giusto, bisogna fermare il gioco e soccorrere il portiere. Standing ovation.
Perché ho detto che gesti come questi vanno “pesati”? Semplicemente perché una cosa è fermare il gioco quando stai vincendo 3-0 e dunque non rischi nulla, un’altra farlo quando il risultato è di 1-1 o addirittura ti stai giocando uno scudetto. Raramente, ma è successo.
Certo, vorresti che scene del genere entrassero a far parte della quotidianità di questo sport, ma si tratta di un desiderio di difficile realizzazione. Troppi interessi in gioco, troppe tensioni. A meno che il futuro non disegni scenari diversi. Come saremo quando questo maledetto tempo di morte e contagi finirà? Saremo diversi, è la risposta che si sente più spesso. Diversi come, in meglio o in peggio? Che poi c’è anche da intendersi sul concetto di “diverso”. Nello sport, ad esempio, la diversità potrebbe coincidere proprio con un maggior rispetto dei principi del fair-play. In campo e fuori dal campo. O magari semplicemente con una dimensione più “umana” del fenomeno sportivo di vertice.
Proprio in questi giorni ho parlato con Karl-Heinz Rummenigge, amministratore delegato del Bayern. Quello tedesco, come si sa, è stato il primo fra i campionati di vertice ad essersi rimesso in moto. Qui non voglio entrare nel merito delle decisioni prese dal governo Merkel. Mi interessa piuttosto riportare una considerazione di Rummenigge: “Il calcio negli ultimi dieci anni ha esagerato, e mi riferisco al costo dei cartellini e agli ingaggi. Si è guardato molto più ai soldi che allo sport. Dobbiamo essere umili e far capire alla gente perché vogliamo bene al calcio. E’ proprio il calcio che in questo momento può rappresentare un primo passo verso la normalità. Il fatto che si torni a giocare senza spettatori comporterà un danno economico enorme. Mi aspetto la prossima estate un mercato forse non povero ma sicuramente molto prudente”.
Come la possiamo catalogare? Un’ammissione di responsabilità? Un invito alla riflessione e ad un cambiamento di rotta? Direi un po’ di tutto questo. Il calcio del ventunesimo secolo ha viaggiato al di sopra delle proprie possibilità. Non serviva il Coronavirus per riconoscerlo, basta vedere quante e quali società sono fallite nel recente passato. Un po’ di umiltà non guasterebbe, accompagnata magari da un più marcato rispetto reciproco. Magari dalle macerie della pandemia nasceranno tanti Pessotto, tanti Di Canio. Il calcio è e deve restare un gioco, quel gioco che ha fatto emozionare generazioni di bambini che non vedevano l’ora di scendere in strada, sistemare le cartelle o i giubbotti a mo’ di pali e improvvisare interminabili partite.
Forse è solo un sogno, forse rimarrà tutto come prima e torneremo ad insultarci sui social per un rigore dato o non dato, a vendere e comprare giocatori per cifre che basterebbero a soddisfare per mesi il fabbisogno di mascherine di un Paese intero. O forse no. Inutile fare previsioni, aspettiamo che la nottata finisca e poi vediamo. E se non avremo più squadre da dieci-quindici fuoriclasse stranieri con i loro ingaggi milionari, ce ne faremo una ragione. Sarà un calcio meno spettacolare ma almeno riscopriremo valori ormai dimenticati. E nel cambio, garantito, ci guadagneremo.

 

Il rispetto di se stessi attraverso il rispetto verso gli altri

Massimo Bernardoni
Gli eventi di questi ultimi mesi, nel porci di fronte alla precarietà, alle paure ed in qualche caso purtroppo anche alla tragedia personale o familiare, stanno contemporaneamente inducendo molti di noi ad un serio ripensamento su quelle che, semplificando, vogliamo chiamare le “priorità” della nostra esistenza. Parto con questa piccola riflessione per allacciarmi al tema del fairplay, tema denso di contenuti e valori che stanno alla base di quelle che, anche come società, consideriamo delle “priorità”. Comportamenti scorretti nello sport o nella vita, oltre che da fattori socioculturali o ambientali, derivano anche da una errata lettura e conseguente cattiva interpretazione della “scala dei valori” che stanno alla base di essi. Declinando il tutto nell’ambito sportivo, più che sul fairplay, vorrei porre l’accento sulla “mancanza di fairplay”, una costante purtroppo sempre più radicata soprattutto in masse che non praticano sport in maniera attiva ma sono solo spettatori, ma nello stesso tempo non tralasciando il fatto che le “motivazioni” che spingono molti a intraprendere o continuare a fare sport agonistico, sono sovente malate dei “vizi” di questa società. Tra questi l’egoismo, l’esasperato individualismo e talvolta la ricerca di una rivincita sociale, la fanno da padroni, mettendo in secondo piano quelle che dovrebbero invece essere le giuste motivazioni alla pratica dello sport agonistico. In una società “perfetta” il fairplay non dovrebbe costituire un momento premiante, un’eccezione o un buon gesto da rimarcare. Esso dovrebbe essere intrinseco e “normale” alla stessa pratica. Ma per arrivare a tutto questo le motivazioni devono essere quelle giuste. Nel contesto sportivo spezzo una lancia a favore del paralimpismo, che, grazie anche alla sua recente affermazione, poggia fortunatamente ancora le sue basi su motivazioni e valori che ricercando, attraverso lo sport, benessere psico-fisico, integrazione, abbattimento dei pregiudizi, permettono di vivere la dimensione agonistica in maniera diversa ma più gratificante, in quanto la soddisfazione personale ottenuta attraverso la soddisfazione degli altri risulta un plusvalore importante. Partendo da questi presupposti è indubbio che gli atteggiamenti scorretti vengano così un po’ alla volta a mancare, anche da parte di chi poi assiste alle competizioni da semplice spettatore non trovando quindi più terreno fertile per esternare in maniera spesso anche violenta le proprie frustrazioni. Non si può però sottacere che l’insidia maggiore che offusca continuamente i nostri buoni propositi è la ricerca del lucro attraverso lo sport cosiddetto di livello. Rispetto ad alcune discipline l’indotto finanziario è arrivato a livelli oggettivamente eccessivi, fungendo da deterrente rispetto a motivazioni più nobili e disseminando la piaga del “doping” anche tra chi non ha la possibilità di ambire a lauti guadagni e vede lo sport come mera affermazione personale “a tutti i costi”. Questo brutto periodo servirà anche a farci trovare una “giusta dimensione” in tutto.

 

La bussola del fair play

Giorgio Merola
In questa relazione vorrei ragionare su 2 aspetti: 1) la pratica sportiva è di per sé educativa o lo è a patto che si verifichino determinate condizioni? 2) cosa porta un bambino o un adolescente ad adottare comportamenti di fair play o, al contrario, a manifestare comportamenti scorretti e irrispettosi?
Per rispondere a queste domande, trovo utile partire da un modello scientifico (Pesce et al., 2015) che analizza le potenzialità educative di giochi di movimento e sport in base a 4 pilastri o domini: l’efficienza fisica, le capacità coordinative, le funzioni esecutive o cognitive (per esempio la memoria o la capacità di prendere decisioni e adattare le proprie risposte in funzione della situazione di gioco) e le cosiddette life skills, cioè le abilità di vita alla base dei comportamenti di fair play. L’impatto della pratica sportiva sullo sviluppo e il consolidamento di queste qualità è condizionato da vari aspetti, tra cui, ad esempio, il modo in cui viene presentato un compito motorio dall’istruttore e dalla sua impostazione metodologica. Un approccio multilaterale e basato sulla variabilità della pratica favorisce l’acquisizione di un ampio bagaglio di schemi motori (Manno et al., 1993), il ricorso a situazioni di problem solving migliora la capacità degli atleti di trovare soluzioni e adattarsi alle varie situazioni (Eloranta e Jakkola, 2007). Allo stesso modo, si possono identificare dei presupposti che garantiscono l’impatto positivo dello sport sull’acquisizione di valori e la messa in campo di comportamenti di fair play.
Tra questi fattori gioca un ruolo determinante il cosiddetto Clima motivazionale (Bortoli e Robazza, 2004): un allenatore attento al progresso di tutti, capace di stimolare la collaborazione, interessato all’impegno e alla crescita dei giocatori più che ai risultati può contribuire in modo significativo a favorire l’orientamento al compito degli atleti (Nicholls, 1992), cioè ad alimentare la loro motivazione per il miglioramento e il piacere di mettersi alla prova. Un atleta guidato da questo tipo di motivazione non avrà la tentazione di cercare scorciatoie, né assumerà comportamenti scorretti con gli avversari, dal momento che, nella sua percezione, le regole, l’impegno per raggiungere gli obiettivi e gli avversari stessi contribuiscono a rendere appagante il proprio percorso sportivo. Al contrario, chi viene stimolato a fare meglio degli altri, a cercare la vittoria a tutti i costi e viene magari rimproverato in caso di errori o fallimenti, può arrivare a percepire il rispetto delle regole e la generosità con compagni e avversari come un freno alla propria corsa verso il successo e l’affermazione personale e, pertanto, può essere meno propenso ad adottare comportamenti di fair play, come succede, per esempio, a chi arriva a vedere nel doping l’unica strada percorribile per avere successo nello sport: parafrasando il Dilemma del prigioniero (Breivik, 1987), per mancanza di informazione e di fiducia sulla decisione degli altri atleti, si può pensare che questi imbroglino e sentirsi legittimati a fare altrettanto.
In una recente pubblicazione (2019), Rolando Pizzini considera sport e movimento strumenti capaci di aiutare i bambini a canalizzare emozioni, istinti e pulsioni, generando in loro energie positive e comportamenti socialmente utili. Al contrario, spesso si tende a reprimere e limitare la libertà di movimento e le esperienze motorie dei bambini, creando in loro insicurezze e lacune psicofisiche che potrebbero spiegare sentimenti di invidia, ostilità e un’esasperazione della competizione in cui il proprio successo è subordinato alla sconfitta degli avversari.
Diverse esperienze nel campo della psicomotricità (per esempio, Vecchiato, 2007) dimostrano che favorire la libertà di espressione fisica e l’acquisizione di autonomia nei movimenti porta i bambini ad autodisciplinarsi, a rispettare le regole del contesto riconoscendone l’importanza e a risolvere naturalmente i conflitti che si generano durante il gioco.
Per cui probabilmente, il fatto stesso di mettere i bambini in una condizione di gioco motorio, senza appesantire le loro esperienze con gli atteggiamenti apprensivi degli adulti o imponendo il proprio sistema di aspettative e il proprio modo di concepire lo sport, può dar luogo allo sviluppo spontaneo di comportamenti e modi di pensare riconducibili al fair play.

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